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Lavoro on demand (episodio 2)

lavoro on demand2Nello scorso post abbiamo parlato di come il lavoro attualmente sia condizionato da fattori ed applicazioni tecnologiche digitali. In particolare un possibile sviluppo potrebbe essere quello di una maggiore frammentarietá del lavoro dovuto al fatto che ciascuno di noi anzichè cercare un lavoro potrebbe trovarsi nella condizione di dover diventare una sorta di piccolo imprenditore: costruire un servizio, proporlo sul mercato ad un certo prezzo, cercare clienti o committenti, guadagnare credibilità e posizioni di mercato. Ma tutto questo ha anche i suoi lati negativi: insomma non son tutte rose e imprenditori.

Tutto nasce dal concetto di sharing economy. La sharing economy é una “nuova” economia basata non più sul concetto di possesso delle cose, di vendita e acquisto di prodotti, di strutture e modalità di scambio tra le persone. In altre parole oggi, per molti beni e servizi, possiamo approfittare, diciamo così, del fatto che ci sono modalità di ottenerle pagando molto meno o non pagando affatto (senza averne l’esclusiva o il possesso). Facciamo un esempio ormai semplice e noto a tutti: la musica. Fino a non molto tempo fa per ascoltare un brano del nostro cantante preferito dovevamo acquistare il suo album (CD). Oggi, come sapete, non é più così: la musica la possiamo ascoltare on line, in streaming, tutte le volte che vogliamo senza acquistare ogni singolo album che ci interessa e pagando molto meno. Il nome più famoso di questo servizio si chiama Spotify, ma ci sono molti altri servizi simili e legali (diverso è il download illegale di musica, che rientra invece nelle distorsioni e violazioni di questo sistema).

Ma di esempi simili ce ne possono essere molti altri e vanno tutti nella stessa direzione: utilizzare beni e servizi senza averne il possesso. Condividere con altri un bene che una volta avremmo tenuto solo per noi (dal car sharing alle consulenze di ogni tipo). C’è però un rovescio della medaglia, forse anche due. Il primo rovescio è che le persone in questo modo, a parità di spesa, vogliono usufruire di più servizi o prodotti e d’altro canto per avere quegli stessi prodotti/servizi vogliono spendere meno dirottando i soldi “risparmiati” su altri consumi. In altre parole, a parità di reddito, la spesa è maggiormente frammentata. Il secondo rovescio ce lo racconta bene un servizio riportato da Internazionale nel numero 1081. Il reportage intitolato “Chi condivide e chi guadagna” racconta di come la sharing economy in realtà sia soltanto un modo nuovo e allettante con il quale chi ha capitale riesce a sfruttare il lavoro: insomma, niente di nuovo sotto il sole da un paio di cento anni a questa parte. Nel reportage si racconta di come in realtà strutture come Uber (il servizio di autisti personali concorrenti del taxi) “realizzano utili trasferendo il rischio di impresa sulle spalle dei lavoratori, che hanno poche tutele e bassi guadagni“. Evidentemente il fatto di diventare un piccolo imprenditore non è una scommessa che tutti vogliono accettare e che ancor meno vincono.

La questione è delicata perché se è vero che sempre più da qui in avanti sarà necessario essere maggiormente intraprendenti, creativi e pieni di idee per affacciarsi nel mondo del lavoro, è altrettanto vero che non tutte le professioni devono necessariamente avere bisogno di questi stimoli per funzionare meglio (ad esempio, un medico imprenditore di se stesso sarebbe migliore di un medico e basta?). Secondo noi la sfida non è quella di due schieramenti opposti, pro e contro questa rivoluzione della sharing economy con tutto quello che si porta dietro. Piuttosto ci sembra che sia un confronto, della società e del singolo individuo, con un’evoluzione tecnologica che va molto più veloce di quanto potevamo immaginarci e che riesce a stupirci (e beffarci) più spesso di quanto credevamo. Ora la domanda è: quanto siamo disposti ad accettare questa sfida e prepararci per non farci fregare? Dove sta il confine tra una nuova economia condivisa e la riproposizione di un modello di sfruttamento? Dove mettiamo l’asticella? E voi, dove la mettete? Quanto siete disposti a sacrificare delle vostre abitudini e della vostra cultura in virtù dell’innovazione e le sue opportunità?

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